L’Alternative Rock degli ArtemiXia Cor

The sky is an expanse of dreams. It’s full of stars. If it falls down make a wish. To find peace in your heart which loves (Make a wish).

As God indended è il primo album (aprile 2013, prodotto da Areasonic Records) degli Artemixia Cor, un gruppo rock siciliano (di Marsala) composto da tre elementi: Anthony Mannone (voce e chitarra ritmica), Giuseppe e Valerio Di Giorgi (fratelli, rispettivamente chitarra solista e batteria). Sia per i contenuti che per le sonorità, la loro musica si muove tra le molteplici ed eterogenee articolazioni del grunge e il rock tipico degli anni Settanta. Dai loro brani, come ad esempio da This song for you, si può intuire che il linguaggio da essi adottato, per quanto apparentemente rude, volutamente distorto e quindi grungy, contiene tuttavia un’essenza, un contenuto (the essence of my speech). Se da un lato infatti la più frequentata forma grunge del loro linguaggio appartiene e riflette la modernità e le tendenze musicali della musica rock contemporanea, dall’altro lato l’essenza della sonorità e del loro discorso si riferisce e resta chiaramente legata ai valori relativi agli anni Settanta. A comunicare questi valori, ormai quasi del tutto perduti nella società contemporanea (sobrietà, semplicità e soprattutto love, peace, serenity, fairness, beauty e persino eternità: I will be here forever…, si intona in Make a wish), non sono ovviamente solo i testi (tutti intrisi del più puro romanticismo, nonostante, appunto, la ruvidezza del mezzo e del modo espressivo), ma anche la timbrica e lo spirito che essa evoca. Dietro al cosiddetto muro di suono che tale musica volutamente produce, al di là dell’hard rock, della montagna di distorsione che specie l’heavy metal innalza (come in A chip on my shoulder), oltre la prosopopea satanica ostentata con tanto di voce rauca (come in Cores), ma sempre con istinto giocoso, insomma sotto la dura corteccia, sotto il carapace di suono, in fondo, in profondità, oltre l’hardcore, esiste ancora un core, un torsolo, un cuore, un heart, un tenerume, un’essenza appunto, vi sono ancora quei valori, o perlomeno le loro idee, alle quali gli Artemixia Cor a loro modo si richiamano. In questo senso la loro musica è più grunge che heavy o hair metal: in loro si esprime una insopprimibile nostalgia di qualcosa d’altro dall’esistente, una inattualità, una aspirazione, il bisogno impellente di un andare via di qui, di andare oltre, si percepisce insomma una profonda esigenza di cambiamento, di una alternativa al qui, al questo, al deserto. E per chi, come i nostri giovani musicisti, abita la Sicania, non solo di questi tempi, si tratta di un desiderio vivo e vero. Una Sicania così indescrivibilmente bella e buona (kalós kaí agathós, dicevano i Greci che l’hanno abitata) quanto insopportabilmente avvelenata e maltrattata. Una terra che è al contempo gan eden, giardino dell’eden, e waste land, terra desolata; è gan’elohiym, giardino degli dèi, e deserto (Wüste) che avanza (wächst). Take me away, ripete infatti Riding this wave. Ecco perché la musica di questo gruppo rappresenta il post-hardcore ed è in qualche modo ascrivibile nel novero delle diverse forme dell’alternarive rock seattleriano à la Pearl Jam. Da questo punto di vista la magnifica Riding this wave è sicuramente il brano che maggiormente rappresenta in toto il radicamento degli Artemixia alla cultura degli anni Settanta. Esso ripropone visibilmente il sogno accarezzato da John Lennon con Imagine. It’s time to change! È tempo di andare beyond our reality, verso un mondo dove i bambini verranno vestiti dal cielo. Ma per realizzare questo sogno, questo ideale, è necessario saper (I want to know) cavalcare l’onda oscura di questa tempesta tutta umana che sconvolge il mondo intero. Per fronteggiare questo uragano bisogna restare lucidi e restare in equilibrio come funamboli, malinconici sì, ma mai depressi. Occorre più impegno fattivo e personale per far sì che il Tyrant, il tiranno di The end of line, non distrugga il nostro sogno di giustizia, di fairness, assieme alla nostra memoria o ai pensieri, ai thoughts di A chip on my shoulder. Non incenerisca e non renda ancora più plumbeo il cielo denso di sogni e di stelle immaginato da Make a wish. Il suono orientaleggiante di Riding this wave, prodotto dalla chitarra suonata quasi a corde vuote e accordata due toni più in basso, fa pensare a un sitar. In questo modo si conferisce al brano un ritmo ipnotico e spirituale (oltre che ai Nirvana di Smells Like Teens Spirit, di Lithium o di Come as you are, si pensi anche al secondo movimento, all’Adagio sostenuto del Secondo Concerto di Rachmaninov). Ecco perché questo pezzo sembra una specie di preghiera indirizzata verso l’Oriente, verso la nascita di un nuovo giorno, di una nuova aurora. Quando la voce si sdoppia, si duplica anche la richiesta. Ora è richiesta di qualcos’altro. Di libertà. E in effetti le ultime battute della voce, subito prima dell’intervento della batteria, evoca la mitica Freedom dello Ritchie Evans sdentato di Woodstock. Anzi, a sentire ancora meglio, sembra proprio che la chitarra suonata a quel modo si ispiri alla chitarra folk di Evans. Gli accordi, rispettivamente di Do settima eccedente e di Si settima, con cui si conclude il giro armonico (rigorosamente in Mi minore), in quanto espressione della cultura musicale occidentale, quasi stona in mezzo a quel desiderio di altre sponde, di altri lidi, di un nuovo modo di vivere la musica e la libertà. Davvero commoventi e niente affatto riempitive infine le brevi rullate di Valerio, quasi ad annunciare la straziante nenia hendrixiana a cui si abbandona la chitarra. Qui è come se Giuseppe suonasse sotto dettatura del genius.

A testimoniare questo nostalgico rapporto con un di là già sempre da raggiungere, con un di là che è al contempo anche il mutevole se stesso, con a nice place to living, e per il quale, dice la musica romanticheggiante di tutti i tempi, vale la pena combattere e impegnarsi fino allo stremo (without fear we can fight against injustice) – proprio come combatterono i Partigiani, gli heroes of my past, si dice in The Veterans deathbed, cioè coloro che in mezzo al secolo breve, between two side of a same evil, misero per noi la loro vita in pericolo («Mica c’era solo combattere e sopravvivere», scrive infatti il siciliano Elio Vittorini in Uomini e no. «C’era anche combattere e perdersi. E lui faceva questo con tanti altri che l’avevano fatto») – ; a testimoniare questa nostalgia dunque non solo i refrain, i riffs tipici degli anni Settanta, ma anche la ritmica della batteria in controtempo, i dialoghi tra la voce e lo strumento, gli attacchi degli assolo virtuosi opportunamente usati per far crescere e per intensificare il significato spirituale del brano. A tal proposito, come non ricordare Black Dog dei Led Zeppelin, oppure Smoke on the Water dei Deep Purple? E d’altronde, l’interessante dualismo che questo primo lavoro degli Artemixia Cor permette di cogliere tra la dura esistenza di esseri costretti a vivere come delle cose (we are one thing) e la loro debole essenza, tra il Soundwall e i valori perduti, non fa forse pensare anche alla dialettica orchestra/pianoforte che caratterizza il secondo movimento, all’Andante con moto del Quarto Concerto di Beethoven? Oltre che sul piano del genere musicale o dello stile, questa dualità, questa specie di ossimoro musicale si evidenzia anche sul piano dell’espressione testuale. Ad esempio in Eloquence of Silence, delle classiche parole d’amore, che potrebbero benissimo essere attribuite a un Keats (I believe in your smile, beauty in your being, I believe in your gaze, mirror of your soul, I believe in your word, espression of what you love and hope, I just believe in you, eloquence of silence…), anziché essere dolcemente sussurrate vengono invece urlate dalla voce rauca dell’ottimo Anthony. È questa profonda contraddizione, epocale ed umana ad un tempo, che la musica degli Artemixia esprime, in ovvia funzione critica. Una contraddizione che consiste nell’essere costretti dalla società neoliberista (la cui rivoluzione, non dobbiamo dimenticarcelo, ebbe inizio sul finire degli anni Settanta, e a cui fece immediatamente da contraltare la musica e la cultura punk) ad apparire freddi come metalli, duri e impenetrabili come la roccia del Soundwall, autosufficienti come nemmeno gli animali lo sono, quando invece dentro gli uomini, tutti gli uomini, come ci suggerisce la musica di questo gruppo siciliano, sono fragili e alla ricerca disperata di pace, di amore, di tenerezza e soprattutto di giustizia.

Michele Biondo